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«La riflessione non va oltre lo stato preliminare. Non si riesce a vivere oggettivamente il mondo attraverso il paragone, ma solo uscendo da se stessi, concedendo a se stessi di precipitare.» Anselm Kiefer

La cultura del piagnisteo – Robert Hughes

LA CULTURA DEL PIAGNISTEO – La saga del politicamente corretto
Robert Hughes
Traduzione di M. Antonielli 

Adelphi  1994

Il libro di Hughes ha già diversi anni, ma è ancora del tutto attuale e anzi, integrandolo con quello che è accaduto nei quindici anni successivi – e magari testi come il recente L’inverno della cultura di Jean Clair – le sue sferzate continuano a colpire un bersaglio che forse si è ingrossato, invece di essersi ristretto.

In parole povere, è sotto gli occhi di tutti che siamo messi parecchio male sul versante culturale e il peggio è che questo non è tanto e solo dovuto all’invasione di un’orda di barbari semianalfabeti e ruttanti, prodotta da virus sociali come la televisione o il consumismo, ma soprattutto dalla mediocrità sconsolante, condita di presunzione d’accatto, nella quale è miseramente scivolata la gran parte dei cosiddetti “operatori culturali” o, per meglio dire, coloro che dovrebbero, per ruolo e possibilità, sostenere la produzione culturale.

Hughes si scaglia con lucidità contro molti degli aspetti più eclatanti di questa disfatta culturale. Quello che dice è contestabile e precisabile, ovviamente, ma mi pare difficile poterlo considerare come lo sfogo senile di un vecchio critico d’arte in preda a nostalgia oppure bollarlo come un becero pamphlet fuorviante e interessato.
Molto di quello che dice io lo trovo perfettamente sensato e verificabile anche nel quotidiano, senza per forza essere un direttore di museo, un editor di una casa editrice di primaria importanza o una star della critica d’arte.

Il libro è composto da tre parti, ognuna delle quali è la versione ampliata e ragionata di tre conferenze che Hughes tenne nel 1992 presso la Biblioteca Pubblica di New York.
Nella prima l’oggetto delle sue sciabolate è la patetica mania del politically correct, imperante all’epoca negli Stati Uniti e poi tristemente adottata anche alle nostre latitudini.
Il politically correct inteso in un’accezione ampia, quindi non solo quelle diciture per cui un cieco diventa un “non vedente” e un cadavere un “non vivente”, ma soprattutto l’ubriacatura moralisteggiante della sinistra che ha dato spazio e sfogo a tristi epigoni di passati movimenti che avevano ben altra dignità e nerbo, quali il femminismo delle lotte per i pari diritti delle donne e l’antirazzismo per l’abolizione delle discriminazioni razziali.

Oggi, dice Hughes, nonostante nè l’uguaglianza di genere nè quella di razza siano state conquistate (e quell’oggi vale ancora nel nostro oggi), anche se sono stati fatti innegabili progressi, si assiste a derive oltranziste e deliranti, come la docente che rimbrotta con stucchevole pedanteria una studentessa per aver usato la parola chairman, contenente il sessista, a suo dire, termine man (e qui è difficile non pensare alle altrettanto stucchevoli, a parer mio, polemicucce che si alzano di tanto in tanto nella nostra lingua romanza, sull’uso di abomini linguistici come Ministra, Rettora o altre ridicolaggini simili condite da serissime disquisizioni da parte di seriosissimi personaggi sull’importanza capitale di quella ”a” finale, come se inventarsi parole inesistenti portasse un qualche beneficio alle reali discriminazioni che le donne comuni, non quelle che sono ministro o rettore, subiscono).
Oppure le terrificanti politiche per l’accesso degli studenti non bianchi, e in particolare neri (o negri o di colore o afroamericani) alle università pubbliche americane, le quali, sulla base del reale deficit medio di preparazione di tali studenti rispetto gli altri, hanno tagliato drasticamente i criteri d’accesso.
A cascata, la preparazione universitaria è stata livellata verso il basso, anzi, sarebbe meglio dire bombardata fino a ridurla in macerie, il tutto condito dalle immancabili teorie moralisteggianti sui metodi formativi “innovativi” ed “egualitari”, col risultato di orde di laureati dei college americani praticamente semianalfabeti e totalmente privi degli strumenti minimi per acquisire conoscenze e competenze decorose.

Non molto diverso da quello che succede da noi, con la differenza che al posto della motivazione razziale si è addotta la motivazione “culturale”, ovvero la presunta drammatica carenza di laureati sostenuta da meschini e alquanto ricattatori criteri di valutazione dei corsi di laurea basati sul numero di laureati (da ricordare a questo proposito anche le recente balordaggine del Ministro sugli studenti fuori corso), fingendo di dimenticarsi della qualità delle competenze acquisite da tali laureati.
È cosa nota a chiunque (almeno a chiunque conosca come funziona l’Università e sia minimamente onesto nei giudizi) che il livello medio di un attuale laureato triennale in una laurea tecnico-scientifica non sia significativamente diverso da quello di un diplomato di un istituto tecnico di non molti anni fa.

I commenti di Hughes sulle meschinità compiute nelle università americane sono quasi tutti da sottoscrivere visto che le riforme che si sono succedute da noi non hanno fatto altro che importarle, con gran gioia e vanto dei ministri (di ambo i sessi) che si sono succeduti, oltre al grosso dei rettori e a parecchia altra gente.
I nostri non sono neanche stati originali nell’inventarsi le meschinità.

Altri bersagli della furia di Hughes sono l’aborto e l’omosessualità, temi sui quali i peggiori atteggiamenti faziosi, moralistici e fondamentalisti si sono accaniti.

Con questo, non pensate che Hughes sia un commentatore di destra che spara sulla sinistra come fosse la Croce Rossa.
Ne ha anche per la destra e va giù duro, ma quella per sua natura presta meno spunti di critica. La destra americana, dagli anni Ottanta in poi è dominata da predicatori fanatici, marionette degli affaristi, dipendenti di multinazionali, fondamentalisti religiosi e maniaci del liberismo (e anche in questo caso da noi hanno diligentemente adottato quasi tutto). Quindi non c’è molto da argomentare con gentaglia del genere e il materiale per imbastire un’analisi e una polemica che siano variegate si esaurisce in fretta.

Però il punto che Hughes sostiene con forza è che in tale situazione, i moralisteggiamenti pelosi della sinistra e la furia anti liberal della destra sono due assi che si sostengono uno con l’altro, ognuno ha bisogno dell’altro per autogiustificarsi, una sorta di teatrino che scimmiotta la Guerra Fredda, insomma, ed entrambi sono in perfetta armonia nel perseguire indefessi l’obiettivo di lasciare immutato lo status quo.
Ovvero tutto è diventato politica e il politically correct non è altro che la meschinità di questo tipo di politica che si appropria del personale.
Mi viene in mente qualche parallelo con l’Italia di oggi, chissà perché.

La seconda parte è dedicata al multiculturalismo e anche questa è spietata, sulla stessa linea della prima.
Il multiculturalismo, che ha fatto grande l’America, ma che ha reso grande anche l’Europa presa nel suo insieme (basti pensare alla storia dell’evoluzione degli stati nazionali e alle rivoluzioni industriali), è stato anch’esso fatto ostaggio dai predoni del moralisteggiamento fanatico.
Col risultato che invece di elevare i valori del multiculturalismo, l’influenza reciproca, lo scambio, la contaminazione, l’imitazione, il fascino per storie ed esperienze diverse, si è per molti trasformato in settarismo estremo, barricate alzate a difesa del proprio spazio, il tutto confezionato dalle inevitabili fanfaronate accademiche o presunte culturali.
Di nuovo, la politica è salita con scarponi chiodati sul corpo esanime del multiculturalismo per cui il settarismo è diventato indispensabile per delimitare sfere di influenza e poteri personali.

Emblematico l’esempio che Hughes fa dei fantomatici studi afroamericani, che hanno dato seguito a una storia afroamericana, una scienza afroamericana, una filosofia afroamericana e così via, ognuna con diritto di residenza in opportuni centri studi, dipartimenti universitari o collane editoriali.
Peccato che a fare lo sforzo di guardare il contenuto di tali fortezze corazzate si scoprano cose demenziali come, ad esempio, filoni storici che ricostruiscono l’intera storia dell’Occidente come se fosse una diretta emanazione di eventi accaduti in Africa, oppure si lancino in epiche crociate sulla negritudine degli egizi al tempo dei faraoni, o anche si inventino di sana pianta la progenitura africana di scoperte scientifiche e innovazioni tecnologiche avvenute in Occidente.
Questo, purtroppo, è uno dei risultati di questo progressivo imbarbarimento culturale: l’appropriazione per fini personali e lo stravolgimento di concetti e movimenti che rappresentano tutt’altro, solitamente qualcosa di enormemente dignitoso e importante ridotti a rimasticazioni da parte di mediocri epigoni.

Infine, la terza parte riguarda lo stato dell’arte e Hughes procede come uno schiacciasassi.
Porta come esempi quanto accadde negli anni Ottanta a seguito delle mostre fotografiche di Serrano e di Mappelthorpe (quest’ultimo parecchio disprezzato da Hughes in quanto a valore artistico), nelle quali venivano mostrare immagini indiscutibilmente pornografiche o blasfeme. Ma il punto non è il genere di fotografie proposte dai due, che possono piacere o non piacere, ma solo dei bigotti ultraoltranzisti possono ritenere che ne si debba vietare l’esposizione.
Il punto è come vennero prese a pretesto dalla destra americana per dare il via al ferocissimo attacco, ancora vigoroso tutt’oggi, alla cultura, all’arte e al sostegno pubblico dedicato ad esse.
Iniziò con quelle mostre l’accanimento contro ogni forma di sostegno pubblico da parte della destra.

La risposta della sinistra, tristemente, fu di continuare a sostenere la necessità del finanziamento pubblico, ma, come in precedenza, imbambolandosi in teorie moraliste secondo le quali si sarebbero favoriti artisti di etnie diverse, produzioni artigianali spacciate per artistiche, in definitiva un brodo annacquato nel quale, ancora una volta, si annullavano tutti i criteri di qualità artistici per fare spazio a un indistinto e patetico pietismo consolatorio.

Disarmante e sconsolante un esempio che Hughes cita. A seguito dello scandalo creato ad arte dalla destra per il finanziamento pubblico alle mostre di Serrano e Mappelthorpe, il senatore repubblicano Jesse Helms (noto razzista e fanatico religioso) propose un emendamento che chiedeva che fosse vietato il finanziamento pubblico nel caso di:

1. materiali osceni o indecenti, comprese, ma non soltanto, rappresentazioni di sadomasochismo, omoerotismo, sfruttamento infantile, persone impegnate in atti sessuali;
2. materiale che denigri gli oggetti di culto o le convinzioni degli aderenti a una determinata religione o non-religione;
3. materiale che denigri, svilisca o insulti persone, gruppi o classi di cittadini in base a razza, sesso, fede, disabilità, età o origine razziale.

A parte perle come la fantomatica ”non-religione”, il commento tagliente di Hughes è che, perlomeno gli ultimi due punti, assolutamente vaghi e applicabili a qualsivoglia caso secondo il capriccio di chiunque, invece che essere stati scritti da un senatore della peggior destra razzista e fanatica potrebbero benissimo essere proposti come regolamenti limitativi dell’espressione verbale all’interno di un’università da parte dei propugnatori del politically correct di parte liberal.
Questo per dire che quando si fanno scadere concetti alti fino a ridurli al terreno della vaghezza assoluta, allora quello diventa il campo di battaglia dei peggiori cialtroni.

Un ultimo aneddoto esilarante sulle conseguenze demenziali di questa cosiddetta cultura del piagnisteo viene dall’Olanda.

In Olanda sperimentano da vent’anni la manna populista per tutti. Il governo ha istituito un fondo per l’acquisto di opere d’arte indipendentemente o quasi da ogni criterio di qualità. Conta solo che l’artista sia olandese e vivente. Nella raccolta così messa insieme sono presenti circa ottomila artisti olandesi. Nessuno li espone e, come in Olanda ammettono ormai tutti tranne gli artisti interessati, il 98% delle opere sono porcherie. Ciascuno degli artisti pensa che sia tutto ciarpame tranne la propria opera. Le spese di magazzinaggio, climatizzazione e manutenzione sono diventate tali che bisognerebbe sbarazzarsi di tutto, ma non si può: nessuno vuole quella roba. Non si riesce nemmeno a regalarla. Hanno provato a darla a istituti pubblici, tipo ospedali e manicomi; ma anche i manicomi esigono un minimo di qualità, vogliono scegliere. Sicchè la raccolta sta tutta lì, democratica, non gerarchica, non elitaria, non sessista, invendibile e, con grave rammarico del governo olandese, solo parzialmente biodegradabile.

Un commento su “La cultura del piagnisteo – Robert Hughes

  1. 2000battute
    8 agosto 2012

    È morto Robert Hughes.
    La New York Review of Books ripubblica un suo intervento del 1995, molto critico, ovviamente, sui danni e sulla miseria della televisione.
    http://www.nybooks.com/articles/archives/1995/feb/16/why-watch-it-anyway/

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Questa voce è stata pubblicata il 4 agosto 2012 da in Adelphi, Autori, Editori, Hughes, Robert con tag , , , , .

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