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«La riflessione non va oltre lo stato preliminare. Non si riesce a vivere oggettivamente il mondo attraverso il paragone, ma solo uscendo da se stessi, concedendo a se stessi di precipitare.» Anselm Kiefer

Blue Nights – Joan Didion

blue nightsBLUE NIGHTS
Joan Didion
Traduzione di Delfina Vezzoli
Il Saggiatore 2012

Nuovo tentativo di leggere Joan Didion. Il primo con un titolo preso a caso, Prendila così, per provare. Il risultato fu che mi aveva lasciato perplesso riguardo a diverse cose come lo stile, l’oggetto, la scelta delle parole, ma era stato soprattutto uno l’aspetto che mi era completamente sfuggito: perché una che scrive quelle cose e in quel modo diventa la celeberrima e iconica Joan Didion?

Questa è una domanda che molti si sono posti.

Blue nights è il secondo tentativo, questa volta meno casuale del primo. È il titolo che mi è stato più suggerito, a ragione o a torto non so, mi pare di aver capito che sia uno dei libri importanti dell’opera di Joan Didion. E anche della costruzione del mito Joan Didion.

Il libro ruota attorno alla precoce morte della figlia adottiva Quintana Roo, avvenuta nel 2005 all’età di 39 anni dopo gravi crisi e ripetuti ricoveri. Quello è il punto d’arrivo dichiarato al quale Didion si avvicina componendo apparenti frammenti di memorie e di storie dei suoi anni californiani giovanili. Lo stile, mi pare, è quello tipico di Didion: la franchezza tagliente e la lingua corrosiva della donna evidentemente più intelligente della media della società glamour nella quale vive osservandone la disgregazione, l’ipocrisia, la leggerezza, l’ingenuità, il cinismo, criticandola con ironia e autoironia, immergendovisi fino a esserne parte indispensabile, ne trae ispirazione per i suoi libri e ne emerge come la sacerdotessa dell’illusione di innocenza dell’upper class californiana bianca, ricca, glamour e disperata. Aggettivo più o aggettivo meno, circa così.

Prima di formulare un’opinione su Blue nights, che avevo comunque già caricata in canna, mi sono un po’ documentato. È facile farlo, il mito Joan Didion è diventato negli ultimi anni un genere letterario a se stante. Interviste, contro-interviste, analisi, contro-analisi. Pare esistere un mondo giornalistico-letterario dedicato esplicitamente a mantenere viva la fiamma della discussione Didion-centrica. Per alcuni pare essere una delle massime ispirazioni di vita, di letteratura e di genere. Per altri invece solo l’ennesimo prodotto del marketing dell’industria culturale per le masse intellettuali del centro commerciale biologico.

Ad esempio, sulla Paris Review si trova una vecchia intervista del 1977 a Joan Didion nella quale, tra l’altro, lei afferma di scrivere per se stessa, senza pensare ai lettori, rivendicando quindi una franchezza da confessione intima.
Saltando a oggi, The Daily Beast propone un pezzo apologetico nel quale Joan Didion viene incondizionatamente definita una delle più grandi scrittrici viventi,  condannando però gli effetti dell’ipercelebrità che la portano ad essere spesso rappresentata come l’archetipo della scrittrice “nevrotica ed ermetica”, con l’immagine della donna glamour nella Corvette decapottabile e qualificata dalla parola “cool”. Didion, vuole intendere il pezzo, è di più e diversa da queste classificazioni semplicistiche, ma purtroppo non offre spiegazioni esaurienti in merito.
Per concludere questa brevissima e parzialissima panoramica del genere giornalistico-letterario dedicato a Joan Didion, Vogue ha un buon pezzo che cerca di mantenersi in equilibrio tra gli adoratori e i detrattori del culto didoniano (“Joan Didion […] has tended to be both too easily admired and too rapidly dismissed”). Una delle caratteristiche più ammirate dai fan di Didion è la sua apparente franchezza e capacità di confessarsi di fronte al suo pubblico, quello che essa stessa rimarcava nell’intervista del 1977 alla Paris Review e che costituisce evidentemente anche il tratto stilistico principale di Blue nights che, in effetti, si propone come un’unica, lunga, confessione, a tratti ironica, a tratti cinica e spesso drammatica. Tuttavia, nota Vogue, questa presunta sincerità spesso non trova riscontro in un’analisi dei testi (“the most striking thing about Didion’s self-disclosures was how little they disclose”). Ancora, altro aspetto fondamentale del mito Didion è l’aura di glamour che emana ogni sua storia, soprattutto quelle autobiografiche (“Her controlled first person helps imbue the writer’s habits with the lambent glamour of a lifestyle-magazine spread.”). Di nuovo, questo è un crinale che discrimina i discepoli didoniani dai dispregiatori: gli uni rimangono affascinati dalla vita da copertina raccontata con modi schietti e cinici, gli altri ne sono infastiditi come da un’inutile esibizione pubblicitaria. Infine, ma di particolare importanza anche alla luce delle frequenti discussioni attorno alla presenza femminile minoritaria nella letteratura ma maggioritaria tra i lettori con corollario di polemiche quasi sempre piuttosto pelose, il pezzo di Vogue sottolinea il ruolo al quale Didion è assurta di controparte femminile di miti letterari maschili americani, una sorta di Heminghway donna, tanto per semplificare (“Part of Didion’s innovation was to feminize the literary myth.”)

Ovviamente chiunque può aggiungere altri pezzi altrettanto o più interessanti di questi, ma il punto qui non è produrre un’ennesimo inutile tentativo di analisi critica soggettivamente obiettiva dell’importanza o irrilevanza, franchezza o artificiosità di Joan Didion. Il punto è soltanto che ognuno legge il proprio libro, quindi io leggo Blue nights e cerco di capire cosa ne penso.

Quel che penso è che di certo non mi schiero con i devoti del culto didoniano. Tra i motivi per i quali Joan Didion può diventare un’autrice di culto (intendendo con autore di culto un autore che viene acclamato in quanto persona, non più solo apprezzandone le singole opere) non ne trovo nemmeno uno che sia almeno parzialmente giustificato. Sulla base dei due libri che ho letto, mi pare che la sua celebrità recente abbia più le caratteristiche di un meme culturale che ha preso a circolare in quello strato di società non abbastanza rarefatta da essere realmente elitaria e quindi sociopatica, ma neppure così tanto nazionalpopolare da accontentarsi di prodotti privi di alcun contenuto intellettuale. In questo senso Joan Didion è un prodotto perfetto dell’industria culturale moderna, mi pare.

Blue nights mi sembra tutto tranne che la dimostrazione della sua presunta franchezza e capacità di autoconfessione. Mi sembra anzi per nulla franco e pure poco sincero. Artefatto, costruito talvolta maldestramente (ad esempio, una tiratina sul significato di “privilegiata” riferito alla figlia cresciuta tra gli agi e i lussi holliwoodiani sembra la risposta isterica a una lettera alla rubrica della posta del cuore), sfruttando meccanismi affabulatori come presentare sempre immagini contrastate (le elegantissime e alcolizzate donne in tailleur Chanel, i ricchi e belli californiani improvvisamente colpiti da colpo apoplettico, la bambina bellissima e abbandonatissima dai genitori naturali) e trucchi retorici evidenti. Ad esempio il ricorso alla ripetizione. Didion ne fa largo uso, ma senza la finezza dei maestri della ripetizione, è didascalica e la sfrutta come meccanismo di base per la costruzione di Blue nights. Da ogni frammento, o quasi, di storia che introduce, ritaglia una frase che diventa sia visivamente che musicalmente l’àncora a quel frammento di storia. Poi procede per accumulo per giungere al finale nel quale tutte le ripetizioni-àncora vengono esibite in parata. L’effetto avrebbe voluto essere quello di una coreografia di emozioni che ripercorrevano la storia tragica di lei come madre di una figlia morta prematuramente (più che la tragedia della figlia stessa che finisce in secondo piano); in realtà le ultime pagine a me sono suonate come una parata di brani campionati e assemblati in un jingle pubblicitario ossessivo e fastidioso.

Non mi va però neppure di liquidarla in modo sprezzante, perché non direi che Joan Didion è irrilevante. Probabilmente è irrilevante in quanto a qualità letteraria della sua prosa e del suo stile, ma non è affatto irrilevante il significato di ciò che scrive. Didion mi sembra uno specchio inconsapevole. Capisco che lei appaia e voglia apparire tutto tranne che una donna inconsapevole, ma questo è invece quello che mi sembra: inconsapevole della sua immagine proiettata fuori dallo spazio tracciato per lei dall’industria culturale, fuori dalla capacità d’influenza del meme-Didion.

Mi sembra inconsapevole dei suoi limiti letterari, inconsapevole del fatto che il trucco scenico col quale si dipinge spesso cola o si crepa e lascia intravedere la relativa piccolezza della sua parte nella commedia. Quel che più mi importa però è che solo nella inconsapevolezza del proprio significato fuori dalla bolla artefatta dell’icona, Didion di riflesso, come in uno specchio, si rivela, si fa sincera. Diventa evidente non il suo successo nell’imporsi come Heminghway donna quanto le difficoltà, i fallimenti e i compromessi ai quali soggiace per essere riconosciuta; diventa evidente la strumentalizzazione della sua figura, evidenti sono le miserie dell’industria culturale, ed evidenti sono le cause dello sfracellarsi della letteratura americana e in genere l’intera letteratura occidentale popolare. Joan Didion per me, per come finora l’ho conosciuta, è l’emblema della rovina intellettuale della società moderna, una rovina che viene da lontano e che ultimamente si è accelerata, ne è strumento in parte volontario e vittima in parte inconsapevole, rappresenta insomma l’oggetto del desiderio di un’industria culturale che per aggredire masse sempre più numerose e sempre più distratte ha intrapreso una corsa al ribasso sempre più violenta, iconificando, estremizzando, idealizzando e glorificando modelli sempre più serializzabili, riproducibili, ingegnerizzabili.

Joan Didion va letta e la leggerò, secondo me, come l’eroina di una commedia grottesca e malinconica.

2 commenti su “Blue Nights – Joan Didion

  1. Marina Romanò
    9 gennaio 2016

    Leggo e mi sento chiamata in causa, essendo tra coloro che hanno suggerito questo libro.
    Non so quanto la Didion sia considerata un’icona della letteratura americana, e francamente non mi interessa neppure più di tanto. Si sa che spesso la fama si costruisce a tavolino oppure è frutto di misteriose circostanze che fanno si che dei libracci diventino dei best seller con tanto di critiche e recensioni positive. Mi riferisco per esempio a un libro veramente orrido di un paio di anni fa, La verità sul caso Harry Quebert di tale Dicker, che inspiegabilmente è riuscito addirittura a vincere un tot di premi. Ciò premesso, personalmente non reputo Joan Didion una imperdibile dal punto di vista letterario, la considero una sopravissuta alla vita, e ho apprezzato e amato un paio di suoi libri, tra cui questo.
    Mi sono piaciute le sue considerazioni sul rapporto genitore figli, sulla reciproca dipendenza, di “come li incoraggiamo a restare bambini, di come per noi rimangano più inconoscibili di quanto non lo siano per delle amicizie occasionali; di come noi restiamo altrettanto opachi per loro… di come né noi né loro siamo in grado di contemplare la morte, o la malattia, o anche solo l’invecchiamento dell’altro.” Inoltre, nel suo caso, c’è tutta la problematica del figlio adottato, che so essere (per racconti di chi ha vissuto questa esperienza in prima persona) una questione molto dolorosa e devastante: il problema dell’abbandono, di chi ti ha scelto e di chi non ti ha voluto, la paura, l’ansia perenne che non abbandona mai, il sentirsi inadeguati. E poi la fragilità e vulnerabilità, la paura per la malattia, la vecchiaia che avanza – e il medico che le dice che non si è preparata abbastanza alla vecchiaia- , la solitudine, la paura di svanire di “sbiadire come sbiadiscono le notti azzurre, andarsene come se ne va il fulgore”.
    Quello che mi è piaciuto in questo libro e anche nell’Anno del pensiero magico è che pur parlando di sue tragedie famigliari, il suo stile non è mai sentimentalmelenso, non c’è pathos, anzi, la sua scrittura è affilata, cristallina, dura e precisa come una lama di vetro tagliente. Eppure io la trovo poetica e sincera e la sento vibrare nel profondo. A me non pare artefatta e non ho avvertito neppure compiacimento nella descrizione di quel mondo americano fatto di donne elegantissime e alcolizzate in tailleur Chanel: lo stesso mondo che ritroviamo in tanti scrittori americani a partire da Fitzgerald. Era il suo mondo, e lei si limita a ricordarlo e raccontarlo. Questi sono i motivi per cui te l’ho consigliato, però io sono un animo più semplice:-))

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Questa voce è stata pubblicata il 9 gennaio 2016 da in Autori, Didion, Joan, Editori, Il Saggiatore con tag , , , .

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